Le lingue della Lucania

22/09/2010

Non esiste il dialetto lucano ma i dialetti lucani. Esiste cioè un pendolarismo tra vari universi linguistici che hanno coabitato per secoli, e che esprimono ancora oggi ciascuno una mentalità, una letteratura e condizioni sociali riconducibili alla stessa terra madre. Il profilo linguistico della Basilicata è sensibilmente frammentato, date le differenti vicende storiche che l’hanno attraversata, ma non esistono dei veri e propri confini dialettali: siamo in presenza, semmai, di un grande “ipersistema linguistico”, nel quale l’isolamento geografico e di conseguenza culturale hanno generato l’arcaicità ed insieme la vitalità delle forme. La loro individualità e molteplicità è una ricchezza per la regione, che ha saputo coltivare e tenere unite attraverso i secoli lingue e tradizioni diverse. Per comprenderne meglio le particolarità, è opportuno fare un breve excursus socio-linguistico.

La storia dei popoli della Lucania iniziò tanto tempo fa, nell’VIII secolo a.C., quando i Greci sbarcarono nella parte meridionale della regione. Qui fondarono alcune città, divenute presto floridi centri della Magna Graecia: Metaponto, Siri (Nova Siri), Turi (nei pressi di Sibari, in Calabria), Heraclea (Policoro), Pandósia (Anglona). Perciò il patrimonio linguistico greco nella Basilicata meridionale è considerevole, e si manifesta soprattutto nel lessico e nella toponomastica dialettale dell‘area metapontina. Molte sono, infatti, le parole di origine greca, tra cui: ì lágënë (le lasagne), che derivano dal greco λάγανον; u krúëpë (il letame) < κόπρος; cítrënë (giallo, pallido) < κίτρινοs.

Nel 198 a.C. le città greche e i Lucani si sottomisero al dominio dei Romani, che fondarono colonie a Forentum (Forenza) e Venusia (Venosa), ma anche a Pesto (Paestum), Buxentum (Policastro Bussentino) nel 194 e Forum Popilii (Polla) nel 132, oggi nella provincia salernitana. Solo Grumentum, costruita in età graccana (133-121 a.C.) all’incrocio delle due importanti vie di comunicazione romane, la via Herculea e la via Popilia, ha influito in maniera costante sulla latinizzazione della regione, alimentata essenzialmente dalla via Appia che, a partire dal secondo secolo, attraversando la parte settentrionale della regione, costituì un importante veicolo di innovazioni linguistiche. Tra le parole risalenti al latino classico troviamo, ad esempio, il termine “cugino”, da consobrinus, che ad Oliveto ed Aliano è u kússëprínë; a vënárrë (avena selvatica, Tursi) < lat. avenaria; kráy (domani) < lat. cras; piskráy (dopodomani) < lat. post cras.

Verso la prima metà del 1200 si registra nell’Italia meridionale e in Sicilia una massiccia presenza di immigrati piemontesi provenienti dal Monferrato, e di liguri dall’entroterra savonese. Probabilmente si trattava di gruppi di eretici valdesi in fuga verso terre simili orograficamente alle proprie. Furono accolti da Federico II, che li sottrasse così ai tribunali dell’Inquisizione. Gli idiomi degli immigrati gradualmente si sono fusi con quello degli indigeni e hanno originato una nuova parlata, il gallo-italico. In Basilicata l’influsso settentrionale è notevole nella parte nord-occidentale della regione a Potenza, Picerno, Pignola e Tito; nella parte meridionale a Trecchina. Più tardi, con il dominio degli Angioini sull’intero Regno di Napoli (1266-1442), la lingua locale si arricchisce anche dell’influsso francese.

A varie riprese, infine, dal secolo XV in poi, gli Albanesi sbarcarono nella regione e popolarono i comuni di S.Paolo e S.Costantino Albanese nella valle del Sarmento, e Barile, Ginestra e Maschito nel Vulture. Pur divenendo locali e laboriosi sudditi italiani, queste genti rimasero e sono rimaste albanesi etnicamente e linguisticamente.

Tutte queste popolazioni straniere che, nel tempo, si sono stabilite sul suolo lucano, hanno lasciato le loro tracce nei dialetti parlati oggi nella regione. In Basilicata non esistono dei veri e propri centri urbani di irradiazioni linguistiche, per cui si può assumere, come si diceva sopra, un ipersistema lucano dai molti particolari, comuni all’intera zona o maggioritari. Le lingue della regione appartengono al gruppo dei dialetti centro-meridionali, dove coesistono due sistemi: parlata locale e lingua nazionale (al contrario, ad esempio, di regioni come la Toscana e l’Umbria, dove le parlate locali si avvicinano molto alla lingua nazionale, e dove il concetto tradizionale di “dialetto” non esiste). Se le forme dialettali appartengono tutte ad un ipersistema, le persone che usano tali forme si fanno capire in tutta la regione. In definitiva, esistono un sistema e una norma individuale che per lo più s’inseriscono nel sistema e nella norma collettiva lucana: un chiaromontese, ad esempio, nella vita quotidiana può farsi capire a Melfi - ma non a Bolzano - kwánnë íllë párlë komë l’a fáttë mámmë súyë (“quando parla come l‘ha fatto sua mamma”, cioè in dialetto). I linguaggi di questa vasta area idiomatica, dunque, pur concordando nell’impostazione generale, hanno qualcosa di proprio e di caratteristico, per cui si differenziano in qualche modo l’uno dall’altro. Su tale differenziazione influisce notevolmente e reciprocamente la regione o la località confinante, per i frequenti contatti che hanno i loro abitanti. In dipendenza dell’influsso regionale nei dialetti della Basilicata si hanno tre tipi: nella parte settentrionale il lucano-campano, a est il lucano-appulo e a sud il lucano-calabrese. Quest’ultimo tipo è a sistema vocalico arcaico o latino, mentre gli altri sono a sistema vocalico meridionale moderno.

L’innovazione linguistica del sistema napoletano che cominciava a nascere in Campania già nel I secolo dell’Impero romano si diffonde nel sud dell’Italia grazie alle grandi vie di comunicazione, la via Appia (Roma-Napoli-Taranto-Brindisi) e la via Popilia (Roma-Napoli-Reggio Calabria). Attraverso queste due vie, ma soprattutto attraverso l’Appia, i nuovi registri raggiungono le parti settentrionale, occidentale e orientale della Basilicata sovrapponendosi all’antico sistema vocalico latino, ma non arrivano a toccare la zona lucano-calabrese, rimasta in tal senso più conservativa e arcaica. Il fenomeno più importante introdotto dal napoletano è la metafonia (assimilazione vocalica, dove la vocale tonica di una parola subisce l’influsso della vocale postonica), per cui troviamo capillë per “capelli”, misë per “mesi”, ecc., ma anche il passaggio da -B > -V (bere > vévëre), da D > R con dittongazione (dente > riéndë) e da -nd a -nn (mondo > mónnë).

Nella parte orientale della Basilicata, nella provincia materana confinante con la Puglia e nel Vulture-Melfese, si verificano fenomeni tipicamente pugliesi (ma sempre di derivazione napoletana moderna) come i dittonghi per allungamento che si trovano soprattutto in quelle forme dialettali le cui vocali risalgono alle latine lunghe -i, -e, -o, -u: lat. gallina > a gaddéin, oppure lat. mulu > u móul. Anche sul campo del consonantismo si verifica l’assimilazione progressiva dei nessi latini doppi -ng che diventa -nn, e -ld > -ll: a lénnë < lat. lingua; kállë < lat. caldu. Due altri esempi dell’influsso pugliese sul lucano sono il verbo ágghië (da habeo) e il pronome interrogativo cé (da quid) che diventano nell’ipersistema linguistico della Basilicata ággë e kké.

Per quanto riguarda il versante lucano-calabrese (detto anche“area Lausberg” dal nome del linguista che l’ha esplorata ed esaminata per primo), esso occupa una fascia tra Tirreno e Jonio a cavallo del confine con la Calabria, e ha il suo cuore nel massiccio del Pollino. Fino al Medioevo si estendeva con molta probabilità anche alle zone centrali della Basilicata, intorno a Castelmezzano (Trivigno, Anzi, Pietrapertosa, Campomaggiore, Albano, Laurenzana, Corleto Perticara), perché questi comuni presentano tratti sia innovatori che arcaici, avendo un vocalismo di tipo rumeno, che è un giusto compromesso tra il sistema napoletano e quello sardo dell’area Lausberg. Oggi la zona lucano-calabrese comprende i comuni della provincia meridionale di Potenza, a sud del fiume Agri (Francavilla in Sinni, Chiaromonte, Lauria, Castelluccio, Viggianello, Rotonda, Castelsaraceno, Senise, San Severino Lucano) e alcune località dell’entroterra materano (Valsinni, San Giorgio Lucano). Quest’area, per lo più interna e montuosa, è ricca di arcaismi linguistici poiché non è stata raggiunta dalle innovazioni del sistema campano: presenta, infatti, un vocalismo molto arretrato, simile a quello sardo, nonché la conservazione delle desinenze latine -S nella seconda (cándësë, tu canti) e -T nella terza persona singolare (vátë, va). Questa arcaicità deriva sicuramente da molteplici fattori: in primis dall’isolamento geografico dell’area dovuto in parte alla conformazione orografica, in parte alla mancanza di vie di comunicazione facilmente percorribili. Fin dal II secolo a.C. la Lucania era infatti attraversata da una rete viaria romana, la via Popilia (o Capua-Rhegium), la cui funzione era di carattere militare e di collegamento con la Sicilia. Era una scomoda, lenta e pericolosa alternativa al collegamento via mare. La via Popilia, attraversato il corso del Sele, proseguiva verso sud nel Vallo di Diano attraverso Nares Lucanas (Sicignano degli Alburni), Acerronia (Auletta), Forum Popili (S.Pietro in Polla), come testimoniano le carte itinerarie romane. Da qui s’inoltrava nelle montagne della Lucania meridionale, ma non se ne conosce il percorso preciso. Probabilmente passava per Cosilianum (Sala Consilina) e toccava Lagonegro, poi Nerulum (Rotonda) e sboccava in Calabria attraverso il valico di Campotenese. Nel tratto lucano la strada non era in buone condizioni, semi-deserta e rifugio di ladri e briganti. Anche il re Federico II si recava molto raramente in queste terre e sempre con parecchi sudditi al seguito, data la pericolosità del tragitto. Spesso imperversava, poi, la malaria e le popolazioni locali si ritiravano sui monti, allontanandosi dalla strada di comunicazione. Si spiega, dunque, l’isolamento dell’area Lausberg e la difficoltà di accogliere innovazioni linguistiche. La frammentazione dialettale attuale del territorio attraversato anticamente dalla via Popilia è sicuramente indice di una bassa intensità degli scambi tra le popolazioni, specialmente nelle zone interne.

Nella Lucania sono anche presenti, quasi isole o oasi linguistiche, due tipi di dialetti, che non rientrano nell’area idiomatica meridionale interna: l‘albanese e il gallo-italico. L’albanese, è una lingua indoeuropea con due dialetti, i cui confini vengono convenzionalmente divisi dal fiume Shkumbini: il Ghego a nord del fiume, e il Tosco a sud. La lingua Arbërisht o anche arbëreshë è una variante dell’albanese meridionale Tosco, misto al greco antico. In Basilicata si parla a S.Paolo e a S.Costantino Albanese nella valle del Sarmento, nonché a Barile, Ginestra e Maschito nella zona del Vulture. Questo perché, si è detto, tra la fine del secolo XV e l’inizio del XVI colonie di albanesi si stabilirono in questi paesi dopo che, nonostante l’eroica resistenza dell’eroe Giorgio Castriota Scanderberg, la loro patria era stata occupata dai turchi. Nella regione, come nel resto dell’Italia meridionale, gli albanesi hanno portato costumi e linguaggio propri. A Barile, ad esempio, sono riscontrabili elementi albanesi per lo più nel lessico: dura (porta), che deriva dall’albanese derë; kátër (quattro) < alb. katër; préfti (prete) < alb. prïft; štátt (sette) < alb. shtatë; ddímbri (inverno) < alb. dimri.

La seconda isola è costituita dai dialetti gallo-italici, di tipo settentrionale, presenti nel quadrilatero Potenza-Picerno-Pignola-Tito e a Trecchina, vicino Maratea. Riflessi di questi dialetti, sempre in dipendenza del mutuo influsso esercitato dalle località contigue, si riscontrano a Bella, Ruoti, Avigliano, Cancellara, Tolve e Vaglio Basilicata e Trivigno per il quadrilatero, mentre per l’isola linguistica di Trecchina si riscontrano a Nemoli e Rivello nonché, in parte, a Lauria e a Maratea. Simili dialetti si trovano anche in alcune località della Calabria meridionale e soprattutto nella Sicilia orientale a Piazza Armerina (Caltanissetta), S. Fratello e Novara (Messina), Nicosia e Sperlinga (Enna), con tracce nelle località vicine ad esse. Questi idiomi, come indica l’epiteto ad essi attribuito, si rifanno a due ceppi linguistici differenti, il gallico e l’italico, che hanno in comune la madre latina. Per quanto riguarda il vocalismo un fenomeno rilevante è l’assenza della metafonia delle vocali toniche brevi -E ed -O davanti ad una -I oppure -U nel gruppo potentino: a Tito si sente bóyi, kótu, véndë, mbérnu. Un altro tratto gallo-italico è il troncamento della sillaba finale molto evidente nei participi passati: venù per “venuto”, partù per “partito”, per “pane”, frà per “fratello”. Sul campo del consonantismo, il fenomeno più caratteristico è il cambiamento di -L in -D e, nello stesso contesto, la ulteriore evoluzione in -R: lat. lingua > léngwa (Nord) déngwa (Tito) déngwë (Vaglio B.) ddénwa (Sperlinga, Sicilia) ma réngwa (Picerno); lat. lana > dana (Tito) ddána (Sperlinga) rána (Picerno); lat. lupu > lúyu (Nord) dúpu (Tito) ddóvu (Sperlinga) rúpu (Picerno); lat. lavare > lavár (Nord) dávë (Vaglio B.) ravà (Picerno). Un punto che accomuna le colonie gallo-italiche della Basilicata al nord dell’Italia è la sonorizzazione delle occlusive intervocaliche latine -P, -T e -C: lat. cooperculu > kuvércú (Nord) kuwírchi (Vaglio B.) kovércú (Sicilia); lat. frater > frárë (Picerno); lat. capra > chevre (fr.) > crava (Picerno); lat. nepos > neveu (fr.) > nëvórë (Picerno). I gallo-italici si possono classificare anche come dialetti italici-francesizzanti, proprio per questo legame molto stretto di derivazione e di somiglianze tra alcune parole lucane e il francese: a livello lessicale, registriamo ancora u krësé (l’uncinetto), che deriva da le crochet; a fënéstrë (finestra) < fr. fenêtre; u bbëffétt (la tavola da mensa) < fr. le buffet; arrukkwé (ululare) < fr. roucouler; a bbwátt (la scatola) < fr. la boîte.

A parte le differenze, ci sono alcuni tratti comuni grosso modo alle parlate dell’intera Basilicata. In gran parte della regione si producono gli esiti metafonetici e, per quanto riguarda il consonantismo, è piuttosto generalizzata la conservazione delle occlusive sorde (p, t, k) quando sono intervocaliche; quando si trovano dopo nasale, invece, diventano sonore, per cui sono usuali pronunce come tando per “tanto”, veramende per “veramente” o bango per “banco”. A livello morfologico, il passato prossimo si costruisce con l’ausiliare “avere” anche dove l’italiano usa “essere”: ágg muértë, che deriva dal latino habeo + mortuu, “sono morto”; ågg kadútë, ecc. Singolare è la costruzione del futuro, che in latino è di tipo sintetico (cantabo), mentre in Basilicata e nel meridione si sviluppa un futuro analitico del tipo habeo ad cantare: l’ágg a manná a ppïténdz (“lo devo mandare / manderò a Potenza”, dialetto di Tolve). La formazione del futuro analitico nasce da una necessità di espressione causata dalla diffusione del cristianesimo: l’esistenza umana è un’anticipazione permanente del futuro. Il cristianesimo riporta il futuro nel presente come “necessità dell’agire oggi per” meritarsi la vita eterna. Di qui l’esigenza di un nuovo tempo verbale, un futuro-presente che nasconde una sorta di obbligo o dovere morale. Per quanto riguarda la sintassi, una caratteristica riguarda l’anteposizione dell’aggettivo possessivo rispetto ai nomi che indicano relazioni di parentela: a Potenza, ad esempio, si registrano ta mamma, sa mamma, mi sire e sa ssire per “mia mamma”, “mamma sua”, “mio padre” e “suo padre”. Nelle frasi riflessive, diversamente dall’italiano che usa l’ausiliare essere, il dialetto lucano usa “avere”: t’ey víppëte nu bëkkírë dë vín (“hai bevuto un bicchiere di vino”, Chiaromonte). Nelle relative si usa il pronome ka: lu fyáskë ka bëvéimë (“il vino nel fiasco che beviamo”, Vaglio Basilicata). Infine il dativo etico. Secondo la grammatica latina questa costruzione esprime una partecipazione emotiva del parlante nelle domande (quid mihi celsus agit?, “Che combina Celso nei miei confronti?”, Cicerone), nelle esclamazioni ed esortazioni. In Basilicata è usato anche nelle frasi affermative come, ad esempio, a yíddë lu fa frídd (“a lui fa freddo”, Albano) e státë v attíénd (“state attenti”, Trivigno). (F. R.)


Fonti:

  • Rainer Bigalke, “Basilicatese”, Lincom, München 1994
  • Nicola De Blasi, “L’italiano in Basilicata”, Il Salice, Potenza 1994
  • Franceco Saverio Lioi, “Il dialetto lucano”, in “Leukanikà: rivista lucana di cultura e varia umanità”, n. 4 (2001), pp. 49-53
  • Paolo Martino, “L’area Lausberg: isolamento e arcaicità”, La Sapienza, Roma 1991
  • Antonio Rosario Mennonna, “I dialetti gallitalici della Lucania”, Congedo, Galatina 1987
  • Gerhard Rohlfs, “Studi linguistici sulla Lucania e sul Cilento”, Congedo, Galatina 1988
  • Pina Vallo, “La Lucania e gli antichi: storia, antropologia, dialetto”, RCE, Napoli 2008

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