La cripta Ferrillo nella Cattedrale di Acerenza

di Teodosio Di Capua

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La costruzione della cattedrale di Acerenza cominciò nell’anno 1080, anno in cui il vescovo Arnaldo (1066-1101), secondo le fonti, ritrovò le spoglie del santo protettore del paese, San Canio. La cattedrale insisteva su una basilica paleocristiana nella quale, stando a fonti non del tutto appurate, nel 799 il vescovo Leone II fece traslare le reliquie di San Canio da Atella in Campania, la città romana dove il santo morì martire nel IV o V secolo d.C (1). L’esigenza di edificare una nuova cattedrale derivava dal fatto che nel 1059 il vescovo Godano (1059-1066) - o secondo altri lo stesso Arnaldo - ottenne da papa Niccolò II durante il sinodo di Melfi il permesso di staccarsi dalla provincia ecclesiastica di Salerno, facendo quindi di Acerenza una diocesi metropolita. Di detti fatti tuttavia, è difficile stabilire la veridicità a causa dell’imprecisione delle fonti.(2)
Quel che è certo è che la cattedrale subì danni ingenti a causa del terremoto del 1456, ma solo gli ultimi decenni del secolo segnarono un momento di svolta per la comunità. Matteo Ferrillo, nobile napoletano e barone di Muro già dal 1477, acquistò nel 1479 Acerenza e Genzano. Intorno al 1501 il figlio Giacomo Alfonso, singolare figura di cavaliere e umanista, appassionato d’arte e collezionista di antichità, eredita i feudi lucani del padre inaugurando un periodo di splendore per la città insieme alla moglie Maria Balsa, principessa di origine slava, profuga a Napoli dai Balcani assediati dai turchi, discendente a quanto pare da un ramo della famiglia del Balzo stabilitosi anni prima nella penisola balcanica in età angioina.(3)
L’intervento della coppia di nobili e letterati fu decisivo nella ricostruzione della cattedrale, la costruzione della torre campanaria, datata al 1555, e di quella che è oggi una delle più significative tracce d’arte rinascimentale in Basilicata: la cripta Ferrillo.
La cripta fu portata a termine nel 1524 come testimoniano peraltro le iscrizioni sul fregio dei due portali architravati ai lati dell’ingresso centrale, attualmente ostruiti dalle due scale che immettono alla cripta costruite perpendicolarmente all’andamento della cripta stessa.
La cripta, o sarebbe meglio dire il succorpo, consiste in uno spazio perfettamente quadrangolare ricavato sotto il coro della cattedrale, ripartito in tre navate da quattro colonne disposte al centro del vano: spezzoni di colonne antiche poggiate su alti basamenti decorati con materiale di risulta tardo medioevale intervallati da plinti, reimpiegati, che recano scolpite agli angoli delle figure scimmiesche nelle due colonne che danno verso l’ingresso. Al di sopra dei capitelli, in stile composito, mensole formate da due abachi sovrapposti e un tronco di piramide rovesciato, sostengono la volta.
Le pareti della cripta sono divise in tre moduli di eguale dimensione da semicolonne addossate alle pareti, anch’esse poggiate su piedistalli alla stessa altezza delle colonne nel centro. Lungo tutta la parete, poi, al di sopra dei semicapitelli, corre la trabeazione ornata in perfetto stile classico. Sulle pareti laterali i moduli più in fondo sono occupati da finestre che affacciano sul deambulatorio e da cui filtra la luce, i primi due invece sono decorati da affreschi di mano, secondo taluni, del pittore Giovanni Todisco di Abriola. Sulla sinistra è una Santa Margherita e il Drago, con la santa di Antiochia orante nell’atto di calpestare la bestia, e un’Adorazione dei Magi. Sulla destra gli affreschi raffigurano un Sant’Andrea, con la croce del martirio nella destra e un libro nella sinistra, e un San Matteo, seduto nel suo studio, intento a scrivere su un libro che un angelo gli porge.(4)
La volta di copertura è articolata in nove voltine ribassate. La decorazione finge però una volta a crociera: nei medaglioni su fondo azzurro uniforme sono raffigurati Apostoli, Dottori della Chiesa e Fondatori degli Ordini. L’autore dei dipinti, si è detto, è ritenuto da molti il pittore lucano Giovanni Todisco, ma l’attribuzione rimane incerta.(5)

La parete di fondo è chiusa in corrispondenza dei due moduli laterali per lasciare spazio all’altare che prende posto al centro. Lo scomparto si apre in una sorta di abside quadrangolare, incavato nei lati a formare due volte a botte e sormontato, seguito da un fregio ornato di teste d’angeli, da una volta riccamente decorata con stelle a cinque e a sedici punte, lo stemma della famiglia Ferrillo. Sul ripiano rialzato è posto il sarcofago marmoreo che doveva contenere secondo un primo disegno le spoglie del santo patrono, che un’antica tradizione diceva sepolto da qualche parte e sotto l’altare maggiore, ma che fu in seguito dedicato al culto di San Canio e usato per conservare oggetti di culto.
Questo settore è stato oggetto di pesanti rimaneggiamenti non sempre documentati, pertanto non è semplice stabilire la sua originaria conformazione, soprattutto in relazione al dibattuto problema dell’ubicazione delle reliquie di San Canio. Già nel resoconto della visita pastorale del 1543-1544 del vescovo Giovanni Michele Saraceno si sostiene infatti che le reliquie, in origine collocate sotto l’altare maggiore, sarebbero state trasferite nel succorpo, per poi tornare nuovamente sotto l’altare maggiore, in un vano inaccessibile che al momento della visita non è stato possibile vedere.
(6)  Sembra però che né la cripta né il suo sarcofago abbiano mai ospitato le reliquie del santo patrono, quelle reliquie portate ad Acerenza da Leone e rinvenute da Arnaldo il quale non sappiamo se ne cambiò la collocazione.(7)
Come che sia, la cripta rimane uno degli esempi più suggestivi dello stile rinascimentale in Basilicata. La ripresa delle decorazioni architettoniche in puro stile classico fa da cornice agli affreschi che, se pure non di mano del più famoso artista lucano dell’epoca, saranno stati dipinti da qualcuno della sua scuola o da un epigono della coeva scuola napoletana.
La cripta è una testimonianza non solo della religiosità del committente ma anche della sua adesione a un gusto estetico classicista e antichizzante quale si desume dal reimpiego di materiali e marmi pregiati che è cifra significativa della stilistica rinascimentale. A sua volta però, i soggetti e i materiali impiegati creano degli affascinanti contrasti: i consunti marmi antichi contrastano con quelli di più recente fattura; le figure pagane di alcune lastre decorative, come la sirena o il satiro-centauro che suona lo zufolo, si contrappongono ai temi cristiani degli affreschi alle pareti e sulla volta; ancora, il grottesco di certe decorazioni tardo medievali - si pensi alle teste quasi demoniche delle scimmie alle basi delle colonne - si alterna alla luminosità del limpido ornato rinascimentale. Contrasti che però si ricompongono nel risultato finale, nello sguardo d’insieme, nel rinnovato interesse per il passato ripensato alla luce dello stile moderno.

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(1) P Belli D’Elia - C. Gelao, La cattedrale di Acerenza. Mille anni di storia, Osanna, Venosa, 1999, pp. 65-66.
(2) P Belli D’Elia - C. Gelao, op. cit., pp. 21-23.
(3) P Belli D’Elia - C. Gelao, op. cit., pp. 180-186.
(4) A. G. Iusco (a cura di), Arte in Basilicata. Rinvenimenti e restauri, De Luca editore, Teramo - Roma, 1981, p.
(5) F. Noviello, Storiografia dell’arte pittorica in Basilicata, Osanna, Venosa, 1986, p.
(6) A. Grillo, Acerenza e Matera. La visita pastorale nella Diocesi 1543-1544, Finiguerra Arti Grafiche, Lavello, 1994, p. 33.
(7) P Belli D’Elia - C. Gelao, op. cit., pp. 212-232.
 

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